III

IL RITMO NARRATIVO-POETICO DEL POEMA

Come è noto, l’Ariosto, per la costruzione del suo poema, riprese l’argomento al punto in cui era stato lasciato dal Boiardo nell’Orlando innamorato, e precisamente nel momento in cui Angelica, affidata da Carlo Magno al vecchio Namo per dirimere la contesa tra Orlando e Rinaldo, fugge approfittando della sconfitta dell’esercito cristiano. Riallacciandosi cosí alla trama di un’opera largamente conosciuta e amata, l’Ariosto mostrava di non preoccuparsi affatto di trovare per il suo poema una materia che fosse originale e nuova da un punto di vista esterno e contenutistico; preferiva realizzare la sua piú vera novità, la sua profonda originalità umana e poetica all’interno di una materia già di patrimonio comune, senza rivoluzioni esterne, dunque, ma pure con una sicura coscienza della dimensione radicalmente nuova che egli realizzava poeticamente.

D’altra parte, con questo rifarsi al Boiardo, egli si raccordava ulteriormente (seguendo la linea di quanto già aveva fatto nelle sue opere minori) ad una tradizione specificamente ferrarese, al gusto di una corte, di un ambiente, di un pubblico. È ben noto, infatti, che il gusto per i poemi cavallereschi era una delle componenti fondamentali della cultura della corte estense, la cui biblioteca era ricchissima di «romanzi» francesi e italiani, in quella Ferrara che negli ultimi anni del Quattrocento si mostrava come un fecondo punto d’incontro tra la tradizione romanza e la nuova cultura umanistica.

Il rapporto dell’Ariosto con questa tradizione e con questa corte è del resto manifesto – anche da un punto di vista piú esterno – nel fatto che l’Orlando Furioso è dedicato proprio al cardinal Ippolito d’Este, nelle frequenti allusioni che in esso compaiono alla vita e alle vicende della corte di Ferrara, nell’indirizzo celebrativo nei confronti degli Estensi che assume uno dei suoi filoni fondamentali, la storia di Ruggiero e Bradamante, presunti progenitori della nobile famiglia: motivi che compaiono tutti fin dalle primissime ottave del poema, con la dedica, appunto, ad Ippolito e col primo accenno alla storia di Ruggiero (ripresa anch’essa, col suo intento celebrativo, dalla materia del poema boiardesco, con un aggancio quindi non puramente encomiastico, ma essenzialmente letterario):

Piacciavi, generosa Erculea prole,

ornamento e splendor del secol nostro,

Ippolito, aggradir questo che vuole

e darvi sol può l’umil servo vostro.

Quel ch’io vi debbo, posso di parole

pagare in parte, e d’opera d’inchiostro;

né che poco io vi dia da imputar sono;

che quanto io posso dar, tutto vi dono.

Voi sentirete fra i piú degni eroi,

che nominar con laude m’apparecchio,

ricordar quel Ruggier, che fu di voi

e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio[1].

L’alto valore e’ chiari gesti suoi

vi farò udir, se voi mi date orecchio,

e vostri alti pensier cedino un poco,

sí che tra lor miei versi abbiano loco.

(I, 3-4)

Cosí l’Ariosto, anche da questo punto di vista piú esterno, sapeva inserirsi agevolmente in una determinata e specifica prospettiva della storia e della letteratura del suo tempo e della sua città. E questa materia cavalleresca, e la situazione stessa della tradizione ferrarese, da cui egli la attingeva, mostrano poi chiaramente come la poetica ariostesca, lungi dall’esaurirsi negli elementi derivati dall’elaborazione classicheggiante dell’Umanesimo, subisse anche una forte e feconda suggestione della tradizione romanza.

Questo mondo cavalleresco da una parte serviva al poeta come materia soggetta al suo sorriso e alla sua ironia, al gusto acuto della sua intelligenza (in cui non andrà visto solo un carattere satirico o corrosivo, ma anche un aspetto della estrema varietà del mondo ariostesco), e dall’altra come materia, invece, appassionatamente vagheggiata e amata, per tutto quello che aveva di avventuroso, di movimentato, di simile, in qualche modo, a quel ritmo stesso della vita sempre varia, inesauribile di vicende e di casi, che egli cosí fortemente sentiva.

Da questo punto di vista, deve essere chiaro che, piú ancora che non alla trama esterna dei fatti, la quale si può ridurre, con estrema semplificazione, ad alcune linee fondamentali (la guerra tra i Saraceni e i Cristiani, l’amore e la pazzia di Orlando, la storia di Bradamante e Ruggiero), va dato un rilievo costante alla trama poetica dell’opera. La quale non è altro che la traduzione poetica dello stesso ritmo della vita, che l’Ariosto aveva già in qualche modo indagato e rappresentato, ad esempio, nelle commedie, ad un livello certo piú realistico e con risultati meno complessi e assoluti. Nell’Orlando Furioso il ritmo vitale, con la varietà dei suoi casi, delle sue vicende, con il continuo intervento della fortuna capricciosa e inaspettata, con la ricchezza dei sentimenti che da questi casi stessi vengono sollecitati, viene ulteriormente ripreso e piú altamente tradotto in un ritmo poetico che costituisce lo stesso motivo base, lo stesso ordine fondamentale del grande poema.

Infatti quest’opera, che a volte fu accusata di disordine, di eccessiva instabilità di motivi e di narrazione, è viceversa regolata da un saldo, anche se estremamente volubile e variabile, ordine, che coincide con l’armonica unità di questo ritmo poetico, traduzione del ritmo vitale.

E si può ben vedere come l’Ariosto si preoccupasse anche di segnare questo suo bisogno del ritmo che continuamente varia e si rinnova traducendo il ritmo vitale nella sua inesauribilità, paragonandosi spesso, assai significativamente, ad un suonatore o ad un musico che, per tener desto l’interesse degli ascoltatori, è sempre pronto a cambiare il tono della sua musica, ad abbandonare un motivo ed un ritmo per iniziarne un altro, in modo da non far mai venir meno l’onda continua del ritmo nella sua complessità; si leggano questi versi famosi:

Signor, far mi convien come fa il buono

sonator sopra il suo instrumento arguto,

che spesso muta corda, e varia suono,

ricercando ora il grave, ora l’acuto.

(VIII, 29, vv. 1-4)

Cosí procede la vera trama profonda, il ritmo poetico-narrativo dell’opera ariostesca, con una varietà che non è prova di disordine, ma, al contrario, di un ordine aperto, duttile, estremamente energico ed elastico, che è veramente la realizzazione poetica, profondamente individuale e originale, di quel gusto di un’aurea e mossa perfezione, di un’organicità superiore e non meccanica, che nel precedente capitolo ho indicato come una delle esigenze fondamentali dell’Ariosto e della poetica del suo tempo.

Il senso e l’incanto di questo ordine apparentemente disordinato deve essere colto subito, tra le prime cose importanti, da un lettore del Furioso, il quale potrà servirsi magari anche della viva caratterizzazione del Foscolo: «Nell’istante medesimo che la narrazione di un’avventura ci scorre innanzi come un torrente, questo diventa secco ad un tratto, e subito dopo udiamo il mormorio di ruscelli di cui avevamo smarrito il corso, desiderando pur sempre di tornare a trovarlo. Le loro acque si mischiano, poi tornano a dividersi, poi si precipitano in direzione diversa; talché il lettore rimansi piacevolmente perplesso al pari del pescatore, che attonito all’armonia de’ mille stromenti che suonano nell’isola di Circe, pende le reti [...]»[2].

Tra gli accorgimenti, narrativi e poetici, adoperati dall’Ariosto in questa direzione, uno dei piú frequenti è quello della sospensione del racconto sul punto di maggiore interesse, col passaggio ad un nuovo episodio che accresce e sollecita non solo l’interesse del lettore, ma, anche, il suo sentimento del continuo fluire di un ritmo sempre variabile. Cosí, ad esempio, nel canto XXII il racconto viene sospeso proprio nel momento in cui Zerbino si imbatte nel cadavere di un ignoto cavaliere:

Fra due montagne entrò in un stretto calle

onde uscia il grido, e non fu molto inante,

che giunse dove in una chiusa valle

si vide un cavallier morto davante.

Chi sia dirò; ma prima dar le spalle

a Francia voglio, e girmene in Levante,

tanto ch’io trovi Astolfo paladino,

che per Ponente aveva preso il camino.

(XXII, 4)

Un altro esempio di questa tecnica della sospensione si può prendere dal canto XIX, dove, all’ottava 42, il racconto del viaggio di Angelica e di Medoro viene sospeso proprio quando essi incontrano un uomo pazzo, che si scaglia contro di loro, e di cui il poeta ci tace il nome: il tono è volutamente ambiguo, e la descrizione del pazzo svanisce e trascolora nel rapido passaggio alle avventure di Marfisa: eppure questo è il primo preannuncio, strutturalmente importantissimo, della pazzia di Orlando, il cui sorgere sarà descritto solo nel canto XXIII:

Ma non vi giunser prima, ch’un uom pazzo

giacer trovaro in su l’estreme arene,

che, come porco, di loto e di guazzo

tutto era brutto e volto e petto e schene.

Costui si scagliò lor come cagnazzo

ch’assalir forestier subito viene;

e diè lor noia, e fu per far lor scorno.

Ma di Marfisa a ricontarvi torno.

(XIX, 42)

A rendere musicalmente il suo senso del ritmo, l’Ariosto, oltre questi mezzi narrativi, e altri numerosi espedienti stilistici, ha avuto a disposizione, attingendolo alla tradizione dei poemi cavallereschi e a larghe zone della letteratura del Quattrocento, ma quasi reinventandolo, riadattandolo alle sue esigenze espressive, quel formidabile strumento metrico che è l’ottava: e gli ha donato una sua struttura logica e ritmica tutta nuova e originale, modificando grandemente i valori che esso aveva assunto in quella tradizione precedente. Strumento metrico che corrisponde quasi alla cellula del ritmo musicale ariostesco, del suo movimento elastico, quest’ottava sa impostare con varietà e con ricchezza di sfumature il movimento, quasi in crescendo, dei primi sei versi a rima alternata, per risolverlo poi nei due versi finali a rima baciata. E d’altra parte le singole ottave non vanno sentite troppo isolatamente, come unità in sé raccolte e concluse. L’ottava ariostesca è certo dotata di quell’incanto che una misura base sapeva assumere nei classici, ma in realtà l’Ariosto ha asservito quella unità metrica al rapido svolgimento della propria linea musicale che richiede quella sorta di caduta e di ripresa che c’è fra la chiusa e l’inizio di due ottave e spesso ne ha superato i limiti con gioia, quasi a provare che la sua regolarità era legge intima, capace di spezzarsi e costretta solo ad una multiforme varietà di movimenti che l’ottava inquadra e raccoglie, rispecchiandola nel suo breve ma complesso disegno.

Secondo il dispiegarsi di questa onda ritmica sempre variabile si modellano e si articolano anche i personaggi, le situazioni, la psicologia, i paesaggi del poema. Con ciò non si vuol dire che l’Ariosto mancasse della capacità di impostare, anche saldamente, forti personaggi, né che fosse privo di esperienza e di intelligenza psicologica, di capacità di indagine umana e sentimentale. A ricordare la sua acutezza e finezza in proposito, si possono citare questi due soli versi, che scendono veramente a fondo nella psicologia di Fiordiligi, turbata dai sogni che le annunciano la morte del suo caro Brandimarte, nella imminente battaglia, ma piú ancora dalla stessa presenza in lei di quei sentimenti, che non aveva mai avuto in occasione delle precedenti battaglie del compagno:

e questa novità d’aver timore

le fa tremar di doppia tema il core[3].

(XLI, 33, vv. 7-8)

Ma questa capacità di indagine psicologica viene assorbita e adoperata essenzialmente in appoggio al fluire del ritmo, della vicenda poetico-narrativa. L’Ariosto costruisce la sua umanità piú viva in una specie di sopramondo, dove vivono anche sentimenti profondi, ma distaccati da semplici esigenze di analisi psicologica, sí che tutto viene assorbito da una coerenza di visione e di musica.

Cosí egli non indugia a lungo nella psicologia, nella creazione dei personaggi: ne tratteggia quanto gli basta perché possa inserirli dentro una musica in cui essi fungono da nuclei di incontri e di pretesti per il dispiegarsi della fantasia sull’onda del ritmo vitale.

Esemplare in questo senso è la lettura del I canto del Furioso, dominato potentemente da un ritmo poetico che lo percorre dal principio alla fine, con una larga varietà d’orchestrazione, che ne fa come una grandiosa, celere e varia ouverture per tutto il poema, dove tutti gli elementi della rappresentazione (personaggi, paesaggi, situazioni), lungi dall’acquistare un rilievo isolato, contribuiscono alla creazione di quell’effetto ritmico unitario e complesso. Sul motivo della fuga di Angelica si inseriscono continuamente e inesauribilmente incontri, episodi e sfondi di paesaggio: ogni novità narrativa serve non tanto a destare un isolato interesse quanto a provocare nuovi movimenti, nuovi ritmi piú accelerati o piú spianati.

Angelica, in fuga da Parigi, incontra subito l’aborrito Rinaldo, che la costringe ad accelerare il ritmo della sua fuga, impaurita e spaventata:

La donna il palafreno a dietro volta,

e per la selva a tutta briglia il caccia;

né per la rara piú che per la folta,

la piú sicura e miglior via procaccia:

ma pallida, tremando, e di sé tolta,

lascia cura al destrier che la via faccia.

Di su di giú, ne l’alta selva fiera

tanto girò, che venne a una riviera[4].

(I, 13)

E sulla «riviera» – in una leggerezza di favola che supera ogni orgasmo psicologico, evidenziata proprio dalla ripetizione di quella parola su cui si scarica l’elettricità animata dell’ottava precedente e che apre magicamente il nuovo incontro e la nuova situazione – si trova un altro innamorato di Angelica, Ferraú:

Su la riviera Ferraú trovosse

di sudor pieno e tutto polveroso.

Da la battaglia dianzi lo rimosse

un gran disio di bere e di riposo;

e poi, mal grado suo, quivi fermosse,

perché, de l’acqua ingordo e frettoloso,

l’elmo nel fiume si lasciò cadere,

né l’avea potuto anco riavere.

(I, 14)

Come Rinaldo aveva perduto il suo cavallo Baiardo, cosí Ferraú ha perduto il suo elmo: ma l’incontro con Angelica distoglie ambedue dalle ricerche. Ferraú offre il suo aiuto alla fanciulla, e intraprende subito un duello col sopraggiungente Rinaldo: questo duello permette ad Angelica di allontanarsi ancora, dando di nuovo l’avvio al ritmo di fuga in un coerente crescere del terrore della donna entro la selva che si presenta ora suscitatrice di irreali paure e di fantastici paesaggi:

Fugge tra selve spaventose e scure,

per lochi inabitati, ermi e selvaggi.

Il mover de le frondi e di verzure,

che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,

fatto le avea con subite paure

trovar di qua di là strani viaggi;

ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,

temea Rinaldo aver sempre alle spalle.

(I, 33)

Finché il ritmo e la scena si spianano in una specie di adagio idillico, che non sorge improvviso come sfogo sentimentale dell’anima, ma risulta appunto come nodo di sostegno alla corsa inesausta dei motivi melodici, fino a culminare in una visione di bellezza serena e superiore, con l’immagine di Angelica che si addormenta in mezzo all’erba, ricca di un fascino particolare proprio per la naturalezza con cui gli atti piú comuni e piú elementari vengono resi musica e poesia, lontano da ogni scadimento nel provocante o nel lezioso. Si leggano per intero queste quattro ottave:

Quel dí e la notte e mezzo l’altro giorno

s’andò aggirando, e non sapeva dove.

Trovossi al fine in un boschetto adorno,

che lievemente la fresca aura muove.

Duo chiari rivi, mormorando intorno,

sempre l’erbe vi fan tenere e nuove;

e rendea ad ascoltar dolce concento,

rotto tra picciol sassi, il correr lento.

Quivi parendo a lei d’esser sicura

e lontana a Rinaldo mille miglia,

da la via stanca e da l’estiva arsura,

di riposare alquanto si consiglia:

tra’ fiori smonta, e lascia alla pastura

andare il palafren senza la briglia;

e quel va errando intorno alle chiare onde,

che di fresca erba avean piene le sponde.

Ecco non lungi un bel cespuglio vede

di prun fioriti e di vermiglie rose,

che de le liquide[5] onde al specchio siede,

chiuso dal sol fra l’alte quercie ombrose;

cosí vòto nel mezzo, che concede

fresca stanza fra l’ombre piú nascose:

e la foglia coi rami in modo è mista,

che ’l sol non v’entra, non che minor vista.

Dentro letto vi fan tenere erbette,

ch’invitano a posar chi s’appresenta.

La bella donna in mezzo a quel si mette;

ivi si corca, et ivi s’addormenta.

Ma non per lungo spazio cosí stette,

che un calpestio le par che venir senta:

cheta si leva, e appresso alla riviera

vede ch’armato un cavallier giunt’era.

(I, 35-38)

Si nota subito come il dinamismo del ritmo non soffra lunghe pause: dalla stessa ultima ottava si apre una nuova scena, con l’arrivo di un altro innamorato, Sacripante, che, credendosi solo, scende in riva al fiume, in un atteggiamento pensoso e malinconico, che gli detta fra l’altro due ottave famose, anche se forse affidate troppo ad un tono di bravura stilistica (ma perfettamente funzionali, col loro respiro vagamente elegiaco, alla varietà della linea ritmica del canto):

La verginella è simile alla rosa,

ch’in bel giardin su la nativa spina

mentre sola e sicura si riposa,

né gregge né pastor se le avicina;

l’aura soave e l’alba rugiadosa,

l’acqua, la terra al suo favor s’inchina:

gioveni vaghi e donne inamorate

amano averne e seni e tempie ornate.

Ma non sí tosto dal materno stelo

rimossa viene e dal suo ceppo verde,

che quanto avea dagli uomini e dal cielo

favor, grazia e bellezza, tutto perde.

La vergine che ’l fior, di che piú zelo

che de’ begli occhi e de la vita aver de’,

lascia altrui côrre, il pregio ch’avea inanti

perde nel cor di tutti gli altri amanti.

(I, 42-43)

E le sorprese, le pause, le apparizioni, si susseguono per tutto il canto, nei toni originalmente piú variati: a cominciare, ora, da quello comico che accompagna la figura di Sacripante, il quale, trovata Angelica, vede frustrate le sue velleità erotiche dall’arrivo di un cavaliere armato che lo sbalza di sella e si allontana.

La comicità della sua umiliazione – che cresce al massimo quando egli viene a sapere di essere stato sconfitto da una donna, cioè dalla guerriera Bradamante – si smorza poi nella lentezza ironicamente triste della sua partenza insieme ad Angelica, bruscamente interrotta dal movimento vigoroso, tempestoso e bizzarro con cui compare sulla scena il cavallo Baiardo:

Non furo iti duo miglia, che sonare

odon la selva che li cinge intorno,

con tal rumore e strepito, che pare

che triemi la foresta d’ogn’intorno;

e poco dopo un gran destrier n’appare,

d’oro guernito, e riccamente adorno,

che salta macchie e rivi, et a fracasso

arbori mena e ciò che vieta il passo.

(I, 72)

E infine, dopo il comico tentativo di Sacripante di fermare Baiardo, la nuova apparizione di Rinaldo, nella sua figura gigantesca e nel fragore della sua armatura («Poi rivolgendo a caso gli occhi, mira / venir sonando d’arme un gran pedone»: I, 77, vv. 1-2), costringe Angelica a riprendere la fuga, riconducendo quasi il canto al punto di partenza, dopo questo svolgimento continuo e questo organico arricchimento di ritmi e di toni.

Tutto il canto, lo abbiamo visto, è incentrato sulla figura di Angelica, la quale, però, lungi dal presentare una forte caratterizzazione psicologica, si presenta come un’immagine assai vaga, come una forma di femminilità, di bellezza, mèta di «brama» e quindi di avventure, di movimenti musicali: e il poeta, una volta intuita questa forma, ha cominciato subito ad arricchirla, a svilupparla non psicologicamente, non drammaticamente, ma nella sua funzione di appoggio al ritmo narrativo-musicale della fuga e delle incessanti avventure.

Cosí quegli spunti di paura femminile, di astuzia, di egoismo, di vanità che coesistono con la grazia del suo riposo nel bosco fiorito, pur cosí concreti ed umani, non sono dati di un carattere da legare tra loro in una coerenza psicologica, ma sono inizi di uno svolgimento fantastico, di un’avventura poetica.


1 Notare ceppo vecchio: capostipite.

2 U. Foscolo, Sui poemi narrativi, in Opere, ed. naz. cit., vol. XI, pp. 122-125. Cfr. supra, nota 9 p. 106.

3 Di questo episodio riparleremo piú avanti, al capitolo VII.

4 Nota riviera: fiume.

5 Nota liquide: limpide.